Il ritratto del critico da giovane:
l’esordio leopardiano di Walter Binni


I. Il «Saggio di III anno in letteratura italiana», a.a. 1933-1934
A soli ventun anni, Walter Binni presenta ad una commissione composta da Attilio Momigliano, Walter Biadene e Vittorio Amoretti, il «Saggio di III anno in letteratura italiana», dal titolo L’ultimo periodo della poetica leopardiana. L’oggetto della sua trattazione sono i canti fiorentini e quelli napoletani: da Il pensiero dominante a La ginestra.
Invero, la lettura di questa tesina, oggi riproposta meritoriamente da Morlacchi Editore, all’interno della collana “Edizioni del Fondo Walter Binni” 1 , non aggiunge molto alla riflessione compiuta dal critico sull’universo Leopardi, anche perché dopo essere stata in parte pubblicata l’anno dopo sotto forma di articolo2 , trova la sua reale e piena compiutezza ne La nuova poetica leopardiana3 , la cui pubblicazione, insieme al contemporaneo Leopardi progressivo di Luporini4 , rende il 1947 una data decisiva nella storia della ricezione e della critica. E tuttavia accantonare questo piccolo e giovanile lavoro amputa il pensiero di Binni di un segmento essenziale. È lo stesso autore a suggerirlo, quando in più di un’occasione ricorda l’esistenza di questo scritto, definendolo come il condensato da un lato, e il momento d’inizio dall’altro, del suo lungo percorso di critico, leopardiano e non. Così, in Poetica, critica e storia letteraria, Binni avverte:
L’inizio della mia carriera di critico ha coinciso con il mio avvicinamento allo studio della poetica, quando studiai nel ’34, con un maestro, il Momigliano, meno sensibile a tale tipo di ricerca, ma ben aperto ad ogni ricerca viva ed autentica, gli ultimi canti del Leopardi, individuando in essi una particolare poetica, non idillica, e facendo così una prima esperienza della fecondità di quel punto di vista allargato poi, nel contatto col Russo, nel ricordato libro del ’36 sul decadentismo italiano5 verso una decisa forma di ricostruzione della storia letteraria6 ;
e poi, in maniera ancor più significativa, alla fine della carriera, nel ’94, nella Premessa all’edizione delle Lezioni leopardiane tenute a Roma dal ’64 al ’67, il «Saggio» viene nuovamente ricordato:
alla fine del ’33 […] progettai per la mia tesina di terzo anno l’interpretazione dell’ultimo periodo della lirica leopardiana. Questa interpretazione, discussa nel giugno del ’34 con Momigliano, piacque molto al Maestro, anche se la sua lettura leopardiana era diversamente orientata e pur ricca di spunti che approfonditi avrebbero portato anch’essi assai lontano dalla linea “idillica” di impronta crociana e poi derobertisiana7 .


II. I “nuovi canti”: il Leopardi eroico
Come già ricordato, e come peraltro indica chiaramente il titolo, il «Saggio» si occupa dei canti compresi tra Il pensiero dominante e La ginestra, i quali darebbero vita ad una diversa fase della poetica leopardiana, successiva, e, almeno in questa riflessione del 1934, alternativa alla stagione delle canzoni e in maniera particolare degli idilli. Di qui la definizione di “nuovi canti”, dove se il sostantivo rivendica una qualche continuità con il resto dell’opus (smentita però dal discorso critico condotto nelle 121 pagine del dattiloscritto), l’aggettivo invece segna una radicale e insanabile rottura:
Il presente lavoro è nato dal bisogno di chiarire criticamente l’impressione da me provata nella lettura dei canti posteriori al Pensiero dominante (e che io d’ora innanzi chiamerò senz’altro “nuovi canti”) di un tono unico e nettamente diverso da quelli dei grandi idilli e di ogni altra poesia precedente. […] Negli idilli manca sempre, anche là dove sembra più spiccare la personalità del poeta, un accento forte, energico, eroico: tutto si placa, tutto si armonizza in un tono di rasserenamento che non è quello di ogni arte, ma è proprio dell’idillio leopardiano. Nei nuovi canti invece il poeta sdegna l’armonizzato, il cantato, ogni specie di rifugio o di evasione dal presente in cui la personalità, pienamente cosciente del proprio valore spirituale, lotta e si afferma8 .
La distanza ideologica e poetica tra le due stagioni leopardiane è netta. All’armonia conciliante degli idilli, secondo il giovane Binni si contrapporrebbe la virilità, la maturità e l’eroismo del ciclo di Aspasia e delle successive liriche, secondo un percorso che trova il suo culmine ne La Ginestra. Nei “nuovi canti” Leopardi mostrerebbe un eccezionale coraggio della contraddizione (che nulla ha a che fare con la serena eufonia degli idilli) e della sconfitta, senza però cadere in un autolesionistico pessimistico, ma al contrario dando vita, in virtù di una nuova forza spirituale che sfugge il canto, ad un pessimismo «nobile e costruttivo»9 .
È consequenziale pertanto, secondo Binni, che il nuovo atteggiamento eroico conduca Leopardi al rifiuto di qualsivoglia rifugio nell’ideale, nel sogno e soprattutto nel passato, inteso sia in senso mitico (come si poteva registrare ad esempio nelle canzoni), che in quello «dell’idillio, della lontananza, della ricordanza»10 . È un «presente eterno»11 invece quello che regola l’ultima fase della poetica leopardiana, affrontato da un punto di vista personale e soggettivo (Binni parla di «accento soggettivissimo ed energico»12 ), ma mai personalistico, perché sempre volto a ricavare un messaggio universale ed eterno.
Naturalmente, e questa è la parte più convincente della tesina, il mutamento di prospettiva implica un cambio di registro stilistico: da un punto di vista lessicale, con il ricorso a «parole potenti, giri di frase insolitamente energici»13 ; nelle costruzioni sintattiche, che possono essere sincopate in A se stesso, o molto articolate, ma non idillicamente distese, come ne La ginestra; e infine nelle soluzioni retoriche, con l’abbandono, ad esempio, delle similitudini14 (e qui forse può è lecito leggere una sottaciuta polemica con Fubini, che negli ultimi canti vedeva il ricomparire di «forme letterarie eliminate nei precedenti come le similitudini»15 ).
Ma non tutto l’ultimo Leopardi rientra nel rigido schema costruito dal giovane Binni. Dal suo discorso critico infatti rimangono esclusi Consalvo, le due “sepolcrali”, e Il tramonto della luna, retrocessi nel «Saggio» alla riduttiva categoria di “nuovi canti minori” 16 . In essi infatti mancherebbe la «stretta potente dell’ispirazione personale»17 : per questo Consalvo si ridurrebbe ad «un momento di sfogo torbido e sensuale»18 , o addirittura «di sfogo impacciato dalla necessità dalla necessità di costruzione19 ; le “sepolcrali” invece sarebbero solo «prova della aristocraticità del’espressione» e di «una signorilità che rarissime volte può diventare vigoria e slancio e che spesso decade in freddezza»20 ; mentre Il tramonto della luna viene liquidato rapidamente come «momento debole»21 .

III. Il percorso leopardiano di Walter Binni
La pubblicazione del «Saggio» permette di retrodatare al 1934 l’inizio del percorso leopardiano di Walter Binni. Non solo: ma certe acerbità dello scritto, che a volte sfiorano o travalicano il limite di giudizi ingenui (come quello sulle «blande domande metafisiche del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia»22 ), aiutano il lettore a vedere lo scheletro dell’impostazione critica che ha guidato Binni per sessant’anni di attività. Sei decenni che, seguendo anche quanto indicato da Blasucci23 , possiamo suddividere in tre grandi fasi.
La prima si distende dal ’34 (anno del «Saggio» appunto) al ’47, anno di pubblicazione de La nuova poetica leopardiana, passando attraverso il già citato Linea e momenti della lirica leopardiana (1934), brevissimo saggio, apparso in una sede tutto sommato marginale, ma comunque recepito da Sapegno, che nel ’46, nel suo Compendio di storia della letteratura italiana, «non fu insensibile alla suggestione di un ultimo Leopardi vigoroso ed eroico»24 . Le differenze tra il ’34 e il ’47 non sono di tipo interpretativo, ma di tono: ne La nuova poetica infatti, pur persistendo una contrapposizione netta tra il Leopardi idillico e quello virile, alcuni giudizi risultano meno violenti, così come l’accezione di una poesia personale e soggettiva appare meno pronunciata di quanto si possa registrare nel «Saggio».
La seconda fase dell’iter binniano può essere collocata tra il ’60 e il ’73, anno in cui esce La protesta di Leopardi, volume che raccoglie La poesia eroica di Giacomo Leopardi (1960), Leopardi e la poesia del secondo Settecento (1962) e Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, ossia la lunga introduzione all’edizione di Tutte le opere di Leopardi, licenziata da Sansoni nel ’69. È in questi anni che Binni intraprende una rivalutazione della fase idillica, con l’intenzione di ristabilire una maturazione dei Canti e dell’intera poetica leopardiana, non più seconda la logica della frattura e dei cambi di rotta, ma dell’evoluzione, magari anche con svolte radicali, continua e progressiva. Ne emerge l’immagine «di un poeta complesso e insieme unitario, ugualmente grande nel lamento e nel sogno, nel rimpianto accorato e nell’eroico rifiuto»25 : in sostanza è a quest’altezza che gli idilli, al pari dei “nuovi canti”, entrano definitivamente nel canone leopardiano disegnato da Binni.
L’ultima fase si distende sino alla fine della carriera di Binni. In modo particolare è un saggio del 1980, La poesia di Leopardi negli anni napoletani, a segnare un ulteriore salto in avanti nella riflessione del critico: in questo lavoro, infatti, le due “sepolcrali” e il Tramonto della luna, sottoposti a nuova disanima, cessano di essere relegati alla categoria di prove minori, per conoscere il loro giusto riconoscimento26 . E la Premessa alle Lezioni leopardiane pubblicate nel 1994 conferma le posizioni acquisite, finendo per inglobare all’interno della lettura binniana di Leopardi, tutta l’opera poetica: solo a questo punto la riflessione di Walter Binni su Giacomo Leopardi può dirsi conclusa.

IV. Il giovane Binni e Croce: tra adesione e rifiuto
Volendo racchiudere in una definizione sintetica il metodo critico che regola il «Saggio» del ’34, si potrebbe usare senz’altro quella di “storicismo anticrociano”. Del resto le prese di distanza dall’Estetica di Croce sono ricorrenti in questo giovanile intervento: se nelle Conclusioni Binni avverte «come sia poco critico entrare in questa poesia con un’analisi sceverante meticolosamente poesia e non poesia, ragionativo, volitivo e puramente poetico»27 , già nelle pagine dedicate alla Ginestra aveva ritenuto che «ogni intima mossa spirituale possa essere accolta senza distinzione preconcetta di poesia e non poesia, di esprimibile logicamente o artisticamente»28 . In ogni caso, al di là delle dichiarazioni d’intenti, in parte poi smentite come vedremo, è lampante che sin da questo primo lavoro Binni ritiene possibile leggere l’opera leopardiana solo alla luce di una storicità intensamente vissuta dal soggetto, e di un suo rapporto dialettico con la realtà e con l’altro da sé. E per storicità si intende sia la storia pubblica, sociale e culturale, sia, ben più presente nel saggio, quella privata e personale, sulla cui influenza sulla produzione poetica, Binni non ha dubbi:
Veramente si prova un grande ribrezzo a parlare di esterno, di fatto, di avvenimento biografico in vicende di così alta spiritualità, ma d’altronde, in realtà, non v’è nulla di esterno, di dato, di natura in ciò che riguarda lo spirito ed è accettabile in uno studio di critica estetica tutto ciò che della vita di un poeta può servire a rendere più chiara la interpretazione della sua arte. Perciò parlando dell’amore, delle amicizie del poeta in questi ultimi anni, non intenderemo davvero porre una relazione deterministica, tanto più che se la reciprocità assoluta di causa ed effetto tra vita e poesia vale per ogni artista, maggiormente vale per una natura così intima, così poco vistosa come fu quella del Leopardi, la cui vita fu povera esteriormente ed interiormente ricchissima all’opposto, ad esempio, di quella di un D’Annunzio, tutta sfarzo esterno e limitato contenuto spirituale29 .
In secondo luogo, sempre in linea con una concezione secondo cui il testo è in perenne dialogo con ciò che lo contorna, lo precede e lo affianca, e con questo struttura il suo significato, il giovane Binni non esita a ricorrere anche alla critica delle varianti, pur di dimostrare come negli ultimi anni la poetica di Leopardi abbia conosciuto una significativa svolta. È il quarto e ultimo capitolo del «Saggio», dedicato a Le correzioni dell’edizione napoletana, a mettere in pratica questa impostazione critica, e anche a restituire un’immagine inedita di Binni, non recalcitrante di fronte alle possibilità ermeneutiche offerte da un esame filologico e variantistico dei testi. Secondo l’analisi compiuta da Binni, nell’edizione Starita 1835 Leopardi «cerca di rimettersi entro l’ispirazione da cui sorse il canto che corregge e non vuole, ad esempio, portare l’accento eroico vigoroso della sua nuova poesia nel clima armonico degli idilli»30 . In sostanza, la tesi di Binni ritiene che nel ’35 l’ormai maturo Leopardi, estremamente consapevole della sua poetica e di quale evoluzione questa avesse seguito, interviene sui testi per accentuare, o almeno rendere più visibile, la contrapposizione tra momento idillico e fase eroica.
E proprio questa contrapposizione rappresenta il punto ambiguo del rapporto Croce-Binni. Da un lato infatti Binni rifiuta il concetto di armonia come elemento di giudizio per identificare la vera poesia, ponendosi dunque in rotta di collisione con il magistero crociano. Dall’altro però non può essere taciuto, e Chiara Biagioli nella sua introduzione lo evidenzia, che
Seppur con un evidente ribaltamento di giudizio, Binni si trova infatti ad adottare un sistema interpretativo e valutativo rigidamente distinzionistico, generatore, pur sempre per appoderamento, di alcune, inconciliabili antitesi: personalità idillica/personalità eroica (e di qui poesia idillica/poesia eroica), “Nuovi canti”/“Nuovi canti minori”, canti “completamente realizzati”/poesie “meno riuscite” (e, quindi, momenti forti e momento deboli d’ispirazione). Ancora: romanticismo come senso del vago, dell’indefinito, del nostalgico/“romanticismo di natura spiccatamente individualista, costruttivo”; fuga nel passato/”bisogno coraggioso di porsi di fronte al presente, alla vita, di affermarvi la propria personalità” 31 .
Insomma, per quanto Binni voglia distanziarsi da Croce, non riesce a sottrarsi alle lusinghe della contrapposizione tra poesia riuscita vs. poesia non riuscita, ovvero, radicalizzando forse più del dovuto la questione, tra poesia e non poesia32 .
Un’impostazione, questa, che però non è dovuta solo a debiti contratti con Croce, ma soprattutto ad un atteggiamento, civile ancor prima che critico, messo peraltro ampiamente in luce da Blasucci: l’«appassionata unilateralità»31 del giudizio. Binni infatti è un critico militante, e per questo estremamente nitido e trasparente nelle sue posizioni. Non teme di esporsi in giudizi di valore, magari anche rischiando di dover poi tornare sui suoi passi, pur di rendere coesa e visibile qual è la sua lettura dell’opera. Naturalmente tutto ciò conduce Binni ad un perenne dialogo, e talora conflitto, con altre interpretazioni offerte sullo stesso oggetto di studio. E forse proprio questo è l’insegnamento maggiore che attualmente deve essere tratto dalla lunga lezione binniana, iniziata appunto nel ’34 con il «Saggio di III anno in letteratura italiana».

(1)W. BINNI, L’ultimo periodo della poetica leopardiana, a c. di C. BIAGIOLI, Perugia, Morlacchi, 2009. Si tratta del secondo volume uscito nella collana: il primo è ID., La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, Perugia, Morlacchi, 2007.
(2)ID., Linea e momenti della poesia leopardiana (1935), in Sviluppi delle celebrazioni marchigiane: uomini insigni del maceratese, Macerata, Affede, 1935, pp. 77-97.
(3)ID., La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947.
(4)C. LUPORINI, Leopardi progressivo, in ID., Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947.
(5)Si tratta naturalmente di W. BINNI, La poetica del decadentismo, Firenze, Sansoni, 1936.
(6)W. BINNI, Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1976 [Ia ed. 1963], p. 21.
(7)ID., Lezioni leopardiane, a c. di N. BELLUCCI, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. XI. In realtà un brevissimo cenno alla tesina si trova anche nell’ultimissimo scritto di Binni, non a caso leopardiano anch’esso; si tratta del discorso tenuto al Campidoglio per l’inaugurazione del bicentenario leopardiano, in cui si legge: «Non posso qui diffondermi sulle tappe successive a quel libro cruciale [La protesta di Leopardi], ma voglio almeno ribadire come il mio gesto critico di allora (derivato da oltre un decennio di prove in quella direzione a cominciare da una tesina leopardiana alla Normale nel ’33) potesse sì sembrare ‘unilaterale’, ma certamente non era ‘unidimensionale’ come gli esiti della critica precedente, critica appunto di un Leopardi ‘a una dimensione’» (W. BINNI, Saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle manifestazioni del bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, Roma, Campidoglio, 19 gennaio 1998; lo scritto, tuttora inedito, mi è stato mostrato da Lanfranco Binni, che qui ringrazio; secondo la sua testimonianza l’intervento sarebbe stato spedito al comitato organizzatore il 20 novembre 1997, ossia 7 giorni prima della morte). Vale la pena di ricordare che il «saggio» viene ricordato anche nelle plurime edizione de La nuova poetica leopardiana, come opportunamente ricorda Chiara Biagioli (a cui si rimanda per i riscontri testuali: cfr. C. BIAGIOLI, Prolegomeni a La nuova poetica leopardiana, in W. BINNI, L’ultimo periodo della lirica leopardiana, cit., p. 12, nota 4), e, ad esempio, nell’’81 in un intervento in occasione del cinquantenario dell’Università per Stranieri di Perugia: «Su quei canti [i “nuovi canti”] qui a Perugia abbozzai un lavoro critico realizzato poi in un saggio discusso all’Università di Pisa con Attilio Momigliano nel ’34, per ritornarvi, proprio in un corso tenuto nel 1945 qui all’Università per Stranieri, da cui sarebbe nato il mio libro, La nuova poetica leopardiana che, nel 1947, insieme al saggio di Cesare Luporini, Leopardi progressivo, apriva quella che è stata chiamata la “svolta” della critica leopardiana» (W. BINNI, Perugia e Leopardi, in ID., La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, cit., p. 37).
(8)ID., L’ultimo periodo della lirica leopardiana, cit., pp. 33-34.
(9)Ivi, p. 73.
(10)Ivi, p. 61.
(11)Ibidem.
(12)Ivi, p. 68; per maggiore chiarezza si riporta per intero il passo da cui è tratta la citazione: «Ma quello che conta in tutte queste poesie è l’accento soggettivissimo ed energico che è insofferente di ogni indugio e di ogni appoggio esterno e che si mostra tanto più puro e tanto più esteticamente positivo quanto più direttamente anima la poesia» (ibidem).
(13)Ivi, p. 65.
(14)Scrive Binni al riguardo: «Quanto allo scarso valore dei particolari descrittivi, basterà osservare che pochissime volte il poeta in questo canto [Pensiero dominante] (come negli altri canti successivi) ricorre all’immagine d’appoggio, al paragone che viene semmai asservito al motivo principale, all’affermazione di sé e del proprio pensiero d’amore. Il termine di similitudine è in questi canti scarnito, lontanissimo dall’importanza che aveva, ad esempio, nel Sabato del villaggio, dove assumeva il comando di tutto il componimento: qui perde autonomia fantastica ed è un accento assorbito dalla preponderanza del motivo principale» (ivi, p. 62).
(15)M. FUBINI, Introduzione a G. LEOPARDI, Canti, a c. di M. FUBINI Torino, UTET, 1930, p. XXVI. Al di là della possibile polemica, non ha torto Ghidetti quando sostiene che forse il giovane Binni, nello studio dell’ultimo Leopardi, sia stato forse «sollecitato dal dubbio espresso sull’ultimo Leopardi da Mario Fubini, che, nell’Introduzione al commento ai Canti del 1930, in una nota sembrava avvertire l’insufficienza e la parzialità della propria interpretazione centrata sul “carattere contemplativo” della poesia di Leopardi» (E. GHIDETTI, La lezione di Walter Binni, in La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi. Atti del XI Convegno internazionale di studi leopardiani. Recanati, 30 settembre-2ottobre 2004, Firenze, Olschki, 2008, p. 384.
(16)A questi componimenti è dedicato il capitolo terzo del «saggio», intitolato appunto I nuovi canti minori e i Paralipomeni: cfr. W. BINNI, L’ultimo periodo della lirica leopardiana, cit., pp. 89-105.
(17)Ivi, p. 95.
(18)Ivi, p. 91.
(19)Ivi, p. 93.
(20)Ivi, p. 95.
(21)Ivi, p. 104.
(22)Ivi, p. 39.
(23)Cfr. L. BLASUCCI, La lezione leopardiana di Walter Binni, ID., I tempi dei Canti. Nuovi studi leopardiani, Torino, Einaudi, 1996, pp. 243-255.
(24)Ivi, p. 247.
(25)Ivi, pp. 249-250.
(26)Scrive Binni sulle due “sepolcrali”: «Né d’altra parte le due sepolcrali sono una mediazione profonda solo intellettuale, perché esse (specie la prima, Sopra un bassorilievo sepolcrale antico rappresentante una giovane donna nell’atto di accomiatarsi dai suoi, uno dei capolavori nuovi del periodo napoletano) sono interamente costruite poeticamente (la struttura, il ritmo, le pause, le figure retoriche interiorizzate) e offrono inedite forme dell’interrogazione lucida e dolente di Leopardi, del suo interno dibattito, incessante, poeticamente attivo e coerente alle innovate forme della nuova poetica in nuove versioni che nascono dallo sviluppo del pensiero-poesia. […] Mentre nella seconda (Sopra il ritratto di una bella donna nel monumento sepolcrale della medesima) la bellezza femminile rievocata (in analogia con la figura di Aspasia) in una visione mai così intera e particolareggiata nel suo splendore e nei suoi effetti sulle persone ammiranti ed attratte, vien dissolta (nella prospettiva funerea) in una cruda in una cruda descrizione della decomposizione fisica dopo la morte (“polve e scheletro sei”), “ora fango ed ossa sei” e da questo smontaggio vero e doloroso si risale alla domanda appassionata sul mistero della condizione e della, natura umana, capace di tanto alto sentire e ridotta improvvisamente a polvere e fango» (W. BINNI, La poesia di Leopardi negli anni napoletani [1980: «discorso tenuto il 23 aprile 1980 a Napoli»], in ID., La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 19882, pp. 257-259). Parole egualmente positive vengono spese per Il tramonto della luna: «Così nel Tramonto della luna, la cui ideazione, nel’36 – a mio avviso – anticipa quella della Ginestra […] il Leopardi definisce in una poesia di singolare lucidità, di scansione (tutta campita nel lungo inizio di una similitudine e poi di una scandita conclusione), e di ritmo un pallido ritorno di idillio anche se tanto meno impetuoso e sconvolgente della Ginestra, come più gracile e lineare, ma ben caldo nel suo fondo posseduto ed energico» (ivi, p. 273).
(27)W. BINNI, L’ultimo periodo della lirica leopardiana, cit., p. 128.
(28)Ivi, p. 83.
(29)Ivi, p. 42.
(30)C. BIAGIOLI, Prolegomeni a La nuova poetica leopardiana, cit., p. 23.
(31)Ivi, p. 42.
(32)Una certa ambivalenza tra adesione e rifiuto nei confronti di Croce è presente in molti critici degli anni Trenta, come dimostra del resto anche l’atteggiamento di Momigliano, niente affatto censore delle prese di posizioni anticrociane da parte di Binni, come ha rivelato Chiara Biagioli, nel descrivere e discutere le postille del maestro al «Saggio» del giovane allievo (cfr. C. BIAGIOLI, Prolegomeni a La nuova poetica leopardiana, cit., pp. 25-26). In ogni caso molti critici si rapportarono necessariamente in maniera ambigua a Benedetto Croce; per citare un esempio tra gli altri, è sufficiente rileggere la sincera testimonianza di Petronio: «in quei primi anni Trenta, Croce – la sua figura, il suo magistero – si erano caricati di significati nuovi: l’opposizione, quale che fosse, al regime, il comportamento nel Ventinove alla firma del Concordato, gli scritti recenti di storia italiana ed europea, gli avevano dato un risalto nuovo, e da qauesto punto di vista ce lo facevano sacro: ogni due mesi il fascicolo della «Critica», che arrivava più o meno in tutte le scuole, era conteso e diventava oggetto di lunghe discussioni. Su questo punto eravamo tutti concordi, e concordi eravamo tutti sull’accettazione di alcuni punti essenziali della sua estetica; ma ciò non impediva di dissentire da lui si tanti altri: per esempio sull’interpretazione di Dante, quale era stata espressa nel volumetto famoso del ’21; su quella di Leopardi, condivisa in pieno da molti, respinta da altri. Io, nel ’38, stampai un commento a Leopardi (Antologia leopardiana, Milano, A. Vallardi) e vi respinsi con forza la distinzione tra “poesia” e “non-poesia” all’interno di liriche quali Il sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta, sostenendo la poeticità anche delle strofe che Croce voleva espunte come estranee all’ispirazioni “idialliaca”, di riflessione e di meditazione» (G. PETRONIO, Sapegno storico della letteratura, in ID., Il piacere della lettura, Lecce, Manni, 1996, pp. 166-167).
(33)L. BLASUCCI, La lezione leopardiana di Walter Binni, cit., p. 244.