Ritratto familiare di uno scrittore del Primo Novecento

Augusto Agabiti
(1879-1918)

Augusto Agabiti
Come ha già detto il carissimo amico Scevola Mariotti, la mia partecipazione a questo ricordo dell'Agabiti non è legata tanto, e direttamente, alla mia qualità di critico letterario, quanto, e direttamente, a ragioni familiari e personali. Infatti Augusto Agabiti era il fratello di mia madre, Celestina, anch'essa nata a Pesaro, nel 1886 e morta precocemente nel 1939 a Perugia. Pesaro dunque è per me una città soprattutto importante per questa diretta ascendenza familiare, anche se dovrò subito aggiungere che Pesaro fa parte della mia esperienza esistenziale, della mia geografia sentimentale, perché io, in anni ormai lontanissimi, nella fervida zona della fanciullezza, fra '21 e '25, soggiornai varie volte nella vostra città, fra estate ed autunno, ospite di un'antica famiglia pesarese, i Conti Bracci Vatielli (1), cui ero legato da vincoli di parentela, dato che la mia nonna materna, una marchesa Degli Azzi Vitelleschi di Perugia (cugina della mia nonna materna, una marchesa Barugi di Foligno), era sorella della prima moglie di Cesare Vatielli, madre di Francesco Vatielli che la vostra città ha più volte ricordato come illustre musicologo operoso nel Conservatorio Rossini e nel Conservatorio musicale di Bologna (2). Sicché nel mio ricordo di quella Pesaro del primo Novecento si staglia anzitutto il palazzo Vatielli (all'inizio di via Rossini, all'angolo fra questa via, il Corso e la piazza del Popolo) con la fuga delle sue sale e con il suo grande cortile in cui io giocavo con i miei numerosi cuginetti e dove godevo della ospitalità cordialissima della famiglia Vatielli, dell'affettuosa simpatia di quelle care persone così affabili e simpatiche: lo zio Cesare, con le sue battute scherzose e indaffarato nell'amministrazione delle sue terre, la zia Carlotta, la sua seconda moglie (una contessa Gazzoli di Terni), alta, miope e un po' distratta in mezzo alle tante cure della sua numerosa famiglia e soprattutto le giovani zie, di cui questa mattina ho potuto riabbracciare con grande commozione Giulia (e la rivedo adesso qui presente con il marito, Giuseppe Massarini), a cui ero particolarmente affezionato (veniva spesso a casa nostra a Perugia con sua madre) e che, insieme alle sue sorelle, insieme a mia madre e alle sue amiche pesaresi (come Ginevra Rigoni, così bella e intelligente), affascinavano la mia nascente sensibilità alla gentilezza e alla grazia femminile, di cui mi pareva costituissero un modello particolare appunto le "signore pesaresi". Tanto che fui molto colpito dalla consonanza delle mie precoci impressioni con quelle del grande poeta, che ho tanto studiato e così a lungo servito nella mia attività di critico, quando più tardi incontrai la pagina giovanile del Diario del primo amore, in cui Giacomo Leopardi rilevava il particolare fascino delle signore pesaresi, narrando l'arrivo a Recanati della cugina Gertrude Cassi: "La sera dell'ultimo giovedi, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente, più tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch'io m'abbia veduta mai, di volto però tutt'altro che grossolano, lineamenti fra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna, e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibili, e dalle nostre Marchegiane" (3).
Ma se il palazzo Vatielli con la sua vastità e il suo cortile, centro dei miei giochi infantili (vi giungeva, fra l'altro, assai stimolante e grato, un acuto odore di cioccolato alla vainiglia dalla pasticceria Badioli confinante con quel cortile), e con le care persone che lo animavano è il centro dei miei ricordi pesaresi e di stagioni "idilliche" (e ora dolcissime e amare come tutto ciò che è scomparso per sempre), che spiccano in un'infanzia felice alle origini di una vita di ben più tormentata natura, quei ricordi di Pesaro si estendono a tutta la città, fra il porto e le vie odorose di aria marina, al quotidiano fervore gioioso delle gite al mare (dominato dall'amena rotonda liberty) cui giungevo con i miei parenti sul tram a cavalli in partenza dalla piazza del Popolo (allora piazza Vittorio Emanuele II), insolito nella mia esperienza di tram a elettricità, e dove giuocavo sulla spiaggia sassosa, fra i capanni isolati, nel mare verde (così diverso da quello a me più consueto, tirrenico-versiliese con le sue spiagge amplissime e con i "bagni" lunghi e costruiti); alla letizia delle gite, in carrozza, alle ville dei Vatielli a Santa Maria o a Muraglia (dove mia madre mi indicava la vicina villa che era stata degli Agabiti e in cui essa aveva trascorso periodi felici della sua infanzia), o a Monte Ardizio o a Caprile o a Villa Imperiale, o a quella di certi pomeriggi passati in un cinema a Porta Fano, il "Sapis", nei cui pressi avevano abitato gli Agabiti. Ma certo, ripeto, Pesaro è, anche attraverso i ricordi di mia madre (così malinconica ed energica, così leopardiana nella sua stessa mesta e ardente visione della vita, maestra prima per me di sentimenti e di affetti poi consolidati dall'esperienza e dalla cultura), soprattutto un luogo amato (gli Agabiti vi abitarono dal 1877 al 1904) per questa ascendenza familiare (la più vagheggiata, la più cara), per questo legame con gli Agabiti, con il nonno Francesco, vecchio gentiluomo risorgimentale,
Francesco Agabiti
garibaldino a Bezzecca e a Mentana (4) (con tutto il fascino delle sue generose idealità e della sua qualità di combattente per la libertà e di laico, cui amo far risalire le scaturigini del mio laicismo, del mio impegno per le battaglie contro il fascismo e per la democrazia, della mia feroce avversione per ogni ingiustizia) con lo zio Augusto (5), fratello amatissimo da mia madre nella sua intera lealtà e bontà, nel suo disinteressato idealismo umanitario, nel suo fervore culturale e persino nella sua virile bellezza. Di lui direttamente conservo solo un confuso ricordo infantile, quando verso la fine della guerra egli venne a trovarci a Perugia ed io mi rivedo ancora, bambino di quattro o cinque anni, sul Corso alto e ventoso della mia città6, tenuto per mano da mia madre e da lui, vestito da ufficiale (lo chiamavo lo zio "oppi", uno - due "noddui", il passo dei soldati): camminavo impettito, orgogliosissimo della compagnia di lui, bello, alto, gentile, degno dell'elegantissima figura di mia madre, con i suoi grandi occhi pensosi e malinconici.
Poi, quando giunse la notizia della sua morte precoce (per spagnola, durante una licenza, ma io pensavo senz'altro in guerra) e vidi mia madre affranta, vestita a lutto, ricordo ancora il confuso, fanciullesco impeto di ribellione con cui spezzai i soldatini di piombo così amati nei miei giuochi, attribuendo appunto la sua morte alla guerra di cui quei diletti soldati erano emblema.
Celestina Agabiti
Ma, al di là di quei confusi ricordi infantili la sua figura cresceva in me nei discorsi di mia madre, nei ricordi di lui, delle sue idee teosofiche, ma soprattutto della sua bontà, della sua lealtà spinte sino all'ingenuità: come nell'episodio di lui che stava per essere borseggiato su di un tram a Roma e che essendo riuscito a bloccare il ladro, invece di denunciarlo, lo prendeva sottobraccio, scendeva alla prima fermata con lui, parlava con lui, si informava sui suoi casi miserevoli o presunti tali, e gli regalava una somma pari a quella che il ladro avrebbe potuto borseggiargli. Lealtà e bontà esercitata nella famiglia e con tutti, di cui ebbi ulteriori conferme - morta mia madre - quando essendo deputato socialista all'Assemblea Costituente, nel '46-'48 trovai nella biblioteca della Camera dei deputati, di cui egli era stato segretario e vice-bibliotecario, alcuni vecchi funzionari che ancora di lui si ricordavano con unanime simpatia e me ne testimoniavano la bontà, la schiettezza, l'estrema vivacità intellettuale e la vasta cultura giuridica e letteraria.
Augusto Agabiti (per trarre dai ricordi un minimo di schema biografico che può servire ad integrare la biografia intellettuale che ne traccerà l'amico Corvino, estensore della voce a lui dedicata nel II volume del Dizionario Biografico degli italiani ed ora nelle more di questa pubblicazione purtroppo scomparso) era nato a Pesaro il 7 gennaio 1879 da una antica famiglia, le cui origini sono sì marchigiane (di Fermo) nel Medio Evo, quando ebbe fra i suoi componenti anche un "beato", ma che era poi, intorno al 6-700 divenuta romagnola, di Rimini, dove ancora c'è una piazzetta intitolata agli Agabiti, e da cui proveniva il padre Francesco (nato nel 1840 di madre bolognese, una contessa Sampieri), il quale, dopo la sua attività militare garibaldina, aveva intrapreso la carriera di segretario comunale, lo era stato a Foligno dove aveva sposato Vincenza Barugi (già conosciuta da ufficiale dell'esercito "sardo" come lui diceva, durante esercitazioni nei pressi del castello della Popola, feudo dei Barugi), per po' esserlo a Pesaro dal 1877 al 1904, dopodiché, andato in pensione, si era trasferito a Roma, dilettandosi di pittura (ho ancora in casa due suoi quadri di tipo impressionistico-veristico) e morendovi nel 1914, come ha ricordato l'amico Brancati. A Pesaro Augusto Agabiti, primogenito di Francesco, compi i suoi studi ginnasiali e liceali, contrasse salde amicizie, mantenute sempre nei suoi frequenti ritorni a Pesaro (ricordo per tutte quella con il padre dell'amico Mariotti) (7), fece le prime esperienze culturali, per poi passare nel 1897 a Roma dove frequentò la facoltà di giurisprudenza laureandovisi nel 1901, e dove si formò anzitutto una cultura storico-giuridica importante non solo perché dette luogo a pubblicazioni notevoli come La sovranità della società (1904), ma perché la sua competenza ed esperienza giuridica molto gli giovò poi nel promuovere, - attraverso deputati e ministri, che frequentava per il suo impiego alla Camera dei Deputati,-tante leggi di carattere "igienico-sociale" legate allo sviluppo delle sue idee teosofiche e umanitarie: la legge sui limiti della vivisezione degli animali, la legge sull'alcolismo, e altre per lui personalmente importanti e corrispondenti a problemi assai vivi, e spesso assai avanzati, in quegli anni di primo Novecento. L'epoca in cui egli venne a contatto con il notevole mondo culturale romano, con rappresentanti del modernismo cattolico (come Romolo Murri che scriverà poi una prefazione ad uno dei suoi libri, così come farà per un altro libro il Fogazzaro e da tutt'altro versante, l'Ardigò), con uomini della democrazia liberale, con letterati mossi (pur entro quell'ambiente più fortemente decadente, estetizzante, dannunziano) da problemi di idee e da istanze spiritualistiche (pur con tracce dello scientismo positivistico) che soprattutto trovavano particolare espressione nel folto gruppo teosofico.
Ed è appunto, fra il 1904 e il 1905 che l'Agabiti incontrò Decio e Olga Calvari, teosofi, divenne membro attivo della società teosofica e poi nel 1914 direttore della rivista teosofica "Ultra" (cui aveva già collaborato dal 1907), rimanendo tale fino alla morte nel periodo più attivo e fecondo di quella rivista (e si ricordi che alla teosofia aderirono personaggi come Giovanni Amendola e, più tardi, Arturo Onofri).
Ma io non mi dilungherò sulla sua attività teosofica, certo centrale nei suoi interessi, non solo perché questo è il tema base della relazione di Corvino, ma anche perché meno per me interessante e più lontana dalle mie idee e dai miei interessi (e solo per me recuperabile in una prospettiva storico-culturale del clima spiritualistico di primo Novecento e della reazione al positivismo e al suo razionalismo un po' piatto e mediocre, cui rispondevano diversamente, e con ben maggiore forza, l'idealismo crociano e gentiliano e il materialismo dialettico-storico), mentre più mi interessa ricordare quell'attività (pure inscindibile dal suo spiritualismo teosofico) di riformatore umanitario, che si esprime in tanti dei suoi libri più vivi e che si realizzò anche, come ho già accennato, in precisa formulazione di provvedimenti legislativi cui egli collaborò con molti deputati e ministri, come anzitutto con Luigi Luzzatti (presidente del Consiglio nel 1910 e, prima e poi, ministro e deputato), fornendo ad essi idee, dati, formulazioni giuridiche e spesso facendosene presso di loro suggeritore e promotore. (8)
In questi problemi (tutt'altro che chiusi tuttora, anche se troppe volte riusufruiti in una cultura di "riflusso" di tipo spiritualistico, ma viceversa riattualizzabili in una più concreta coscienza di questioni troppo dimenticate per il prevalere di altri problemi politici e sociali fondamentali e pur bisognosi di nuova attenzione ad aspetti reali della nostra condizione umana) mi sembrano emergere quello sul problema della sepoltura e della morte apparente e quello ecologico e del rapporto fra uomini, animali, ambiente naturale.
Così nella Tortura sepolcrale egli dibatteva il problema, allora assai vivo (ricordate nella Rosa rossa di Quarantotti Gambini, ambientato nel primo dopoguerra, la morte del protagonista e la scena del medico che gli spacca il cuore con l'apposito stiletto?), problema poi del tutto obliterato, della morte apparente, della catalessi, per cui la sepoltura precoce può sottoporre tante persone a quella che giustamente l'Agabiti chiamava la "tortura sepolcrale". Proprio in questi giorni ho letto su di un settimanale l'annuncio di un libro francese di J. Y. Péron-Autret, Les morts vivants che apparirà presto tradotto in italiano (9), e poi, leggendolo, vi ho trovato molti degli argomenti svolti dall'Agabiti e persino alcuni dei rimedi pratici da lui suggeriti allo scopo di evitare una così allucinante possibilità (quella di risvegliarci vivi e chiusi entro la bara e la tomba e così orrendamente "torturati") da cui nasce quella "tafofobia" che pure cova tremenda, a pensarci, sotto la generale disattenzione.
Così nel suo libro, a mio avviso, più maturo e denso e, in certo modo, ricco di futuro, L'Umanità in solitudine del 1914, l'Agabiti creava un quadro efficace di un'umanità che potrebbe trovare un accordo tanto più confortante di alleanza fraterna con la natura e con gli altri esseri viventi, soprattutto gli altri animali (quelli che il mio amico Aldo Capitini chiamava i nostri "fratelli minori"), se non si chiudesse orgogliosamente e ferocemente in se stessa; e lo creava per farne scaturire (a parte la pratica del vegetarianesimo) concrete proposte civili e giuridiche di protezione degli animali, di leggi limitative della vivisezione (che egli trattava anche in altro apposito libro) e persino di leggi di tutela dell'ambiente e del regno vegetale.
Sicché (mentre con questi libri, entro aspetti congeniali della cultura e della sensibilità del suo tempo, anticipava, a suo modo, motivi e problemi che, riaffiorano, aggravati, anche nel nostro tempo) egli - ed è ciò che mi pare più caratteristico della sua pubblicistica e della sua personalità - tendeva a trovare soluzioni positive e concrete, a modificare (partendo dai suoi presupposti religiosi-teosofici: l'unità del cosmo vivente, il legame profondo degli uomini con il tutto, ma non fermandosi alla meditazione teoretica) la realtà umana e i suoi rapporti con il mondo vivente fino (come ho già detto) a promuovere e sostenere leggi precise collaborando con i politici più aperti a simili istanze umanitarie (e magari accettando la pelosa solidarietà di personaggi ambigui della Roma del tempo, come molte dame dell'aristocrazia e della corte sabauda, sino alla reazionaria regina Margherita!).
Quindi i suoi libri hanno per lo più il valore di libri messaggio, di libri-battaglia, legati al suo fondamentale umanitarismo, e come tali vanno giudicati anche dal punto di vista scrittorio (10). Perché anche certi aspetti del suo scrivere, per noi troppo eloquenti e didattici, sono certamente collegati ad una centrale intenzione pragmatica e impressiva che cercava soprattutto un'efficacia sull'immaginazione e sul sentimento e, attraverso questi, sulla ragione dei lettori. Tanto che egli ne mostrava esplicitamente la motivazione, quando ad esempio nel libro sulla Tortura sepolcrale, egli avvertiva: "Io so bene di presentarvi quadri macabri ed in qualche punto sconvolgenti, ma io lo faccio apposta per scuotere il vostro torpore, perché prendiate coscienza di questa situazione, di questo problema".
Da ciò deriva il modo della scrittura, I'abbondanza della casistica e della cronaca, della citazione sollecitante di brani di scrittori congeniali ed eloquenti (Hugo, Zola, Tolstoi, nella loro fase più umanitaria) e persino di usi grafici inediti nella nostra lingua: come quello del segno esclamativo e interrogativo capovolto (ripreso dallo spagnolo) all'inizio di una frase esclamativa e interrogativa, per introdurre e orientare il lettore nella retta interpretazione e dizione della frase. Uso - a detta anche dei miei amici linguisti - assolutamente estraneo all'italiano e considerabile come uno dei modi con cui l'Agabiti intendeva perseguire il suo scopo di comunicazione, di chiarezza, di efficacia, rifuggendo viceversa da ricerche stilistiche più preziose e in genere da quel gusto estetizzante che il dannunzianesimo imperante comportava, e che egli rifiutava, non solo nel suo intento scrittorio, ma alla luce stessa dei suoi ideali umanitari: donde il preciso attacco antidannunziano nel libro Il problema della vivisezione (1911 p. 84) circa l'amoralismo del celebre personaggio del Fuoco, Corrado Brando, che l'Agabiti valuta "non come un semplice paradosso letterario (come fu inteso da qualche critico ottimista)", ma come "il risultato attuale e necessario dei principi areligiosi, edonistici, di egoismo selvaggio professati da alcuni gruppi sociali di intellettuali decadenti, i quali pretendono di essere al di là del bene e del male".
Donde una collocazione, pur fra elementi primo novecenteschi ben chiari (l'"anima", la "cultura dell'anima", con consonanze vociane), in un certo clima più postromantico che precisamente decadente, con qualche rapporto ignaro, ad esempio, con il più significativo critico di quella zona (Eugenio Donadoni), come sul nesso fra morte, religione, filosofia e arte di cui l'Agabiti scriveva nella Tortura sepolcrale: "La morte è il mistero più grande dell'esistenza; quasi una selva buia che dal fondo di una via, tutta l'empie di ombre. Spaventevole, distruttiva, non resta infeconda. Ell'è la madre delle tre forze redentrici dell'uomo: la religione, la filosofia, l'arte trovano in lei l'origine ed alimento primo di vita".
Né qui possiamo a lungo indogiare su tutti i numerosi motivi ideali-programmatici, che emergono da tutta l'opera dell'Agabiti proseguita fino allo scoppio della prima guerra mondiale: basti, ad esempio rilevare l'affermazione della "ridesta coscienza femminile" e della dignità e parità della donna, con tutto ciò che tale motivo implica nella leggibilità storico-attuale degli scritti-battaglia dell'Agabiti.
Nel 1914 di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, l'Agabiti assunse un atteggiamento interventistico, che si può spiegare assai facilmente con l'eredità risorgimentale (la guerra come prosecuzione dell'unità nazionale), con la sua posizione politica di liberale monarchico (la monarchia costituzionale come presunta garanzia dell'unità italiana minacciata a destra dai clericali, a sinistra dai socialisti), con l'avversione non contro la Germania (ritenuta anzi "la patria della scienza e della filosofia" alla luce di un certo coacervo di elementi idealistici e positivistici non raro nella cultura di quegli anni), ma contro il prussianesimo militarista e il "kaiserismo" imperialistico e autoritario, promotore di una schiavitù dei popoli e del "libero pensiero" (anche nella stessa Germania), nonché dall'ingenua speranza dell'"ultima guerra", da cui sarebbe uscita la comunità dei popoli liberi, della libera e solidale umanità (11).
Sicché egli fu interventista e partecipò, come ufficiale del genio, soprattutto alle sanguinose battaglie dell'Isonzo, fra '15 e '17, in prima linea con una compagnia di zappatori spesso usata in attacchi come arma di fanteria, non senza singolari personali proposte (era. ripeto, ufficiale del genio) di strumenti bellici, di cui egli parla in alcune lettere alla sorella maggiore, Margherita, dicendo di aver inoltrato al Comando Supremo lo schema di una invenzione bellica, non ben precisata, ma basata sull'uso dell'energia elettrica, che, a suo avviso, avrebbe minacciato ed infranto le "difese corazzate" austriache e tedesche.
Ma - a parte queste curiose invenzioni e la strana mescolanza in uno spiritualista ad oltranza di un particolare gusto empirico e dell'invenzione tecnica-ciò che conta è che l'Agabiti, partecipò alla guerra con una carica iniziale di persuaso entusiasmo, testimoniato anche dalla larga attività esercitata al fronte e all'interno (in periodi di licenza) come propagandista con conferenze che poi raccolse nel volume Sulla fronte giulia. Ma a un certo punto - ed è questa la fase terminale della breve vicenda biografico-intellettuale dell'Agabiti - egli provò di fronte alla guerra una reazione, che rimetteva in causa anche le sue prospettive politiche e sociali pur senza sconvolgere il suo fondamentale atteggiamento "riformistico" e le ragioni di fondo del suo interventismo. Così, in una lettera del 24 maggio 1917 alla sorella Margherita, egli spiega questo suo cambiamento "Il mio avvicinamento ai partiti popolari, radicali, socialisti riformisti è dovuto ad un cumulo di ragioni, che per iscritto posso appena elencarti. Necessita che i popoli siano d'ora innanzi interpellati nelle gravi questioni internazionali e che non si venda il sangue loro fra un ballo e l'altro da parte di principi senza coscienza e di diplomatici cinici, ignoranti ed egoisti. Necessita che da questa guerra sorgano non solo gli Stati uniti d'Europa ma gli Stati Uniti del mondo. Se no avremo sempre grosse catastrofi non solo politiche, ma economiche, che porteranno alle terribili guerre per la fame. Lo sperpero dei beni è immenso e siccome la popolazione cresce strabiliantemente ovunque se non si provvede, si avrà un disastro molto, ma molto peggiore del presente. Bisogna fare una politica preveggente e che persegua l'ideale del progresso morale ed economico dei popoli e bisogna sostenerlo contro egoismi di individui, di caste, di razze.
Infine siccome, approfittando della guerra, i suddetti reazionari cercano in Italia, Francia, Inghilterra, di comprimere la libertà di pensiero (tanto è vero che si è cominciata un'aspra guerra contro i teosofi) io sento il dovere di reagire tanto più che ciò facendo si contribuisce al bene d'Italia.
La guerra mi ha fatto convincere che, tolta una piccola minoranza, i conservatori avrebbero preferito la schiavitù piuttosto che battersi: così alla pietra del paragone ho potuto distinguere l'oro dall'orpello. Da molto tempo io ero libero pensatore (prova ne siano i miei opuscoli ecc. ecc.), nemico appunto dei potenti e federalista (vedi il mio libro sull'intervento e la federazione europea) e se mi mantenni monarchico fu perché credevo vero il patriottismo dei conservatori e temevo il disfacimento dell'unità d'Italia.
Ora che andiamo verso la monarchia assoluta e che la guerra ha rivelato l'egoismo cieco dei ricchi e dei potenti e il disinteresse eroico e patriottico dei repubblicani, non esito un momento a scegliere la causa repubblicana e se occorrerà per preparare la federazione europea dovremo farlo anche a costo dell'abbattimento di tutte le monarchie".
In tal modo il suo interventismo si congiungeva a quell'interventismo democratico che avrebbe dato molte forze moderate, ma genuine all'antifascismo e (seppure la storia mal si fa con i "se" e dubbie sono le ragioni del "futuribile") par lecito pensare che l'esperienza della guerra e il suo ricavo, come aveva condotto l'Agabiti al fianco (e con il suo costituzionale ardore generoso) delle forze popolari anche se moderate e riformistiche (la teoria e la direzione marxista gli fu estranea), così l'avrebbero portato alla lotta contro la prossima dittatura scaturita dalla guerra.
Ma nel 1918, dopo un periodo passato a Bologna presso il Comando del Genio, durante una breve licenza a Roma (12), egli fu colto dalla spagnola e morì a trentanove anni, il 5 ottobre.
Così si completa e si compie questa vicenda biografica, breve, priva di sbocchi più certi e maturi, ma tutt'altro che priva di tensione, di interventi, di inquietudine intellettuale, illuminata - nel centro promotore delle sue idee in gran parte legate inscindibilmente allo spiritualismo di primo Novecento (e certo così lontane da quelle di chi vi parla e che pur riconosce molti debiti al ricordo sollecitante di questo parente materno) - dal senso profondo e persino ostinato di un essenziale dovere-volontà, quel dovere che bene egli esplicita, in forme molto sue e con un'umile e lucida autocoscienza, in un brano della Tortura sepolcrale (p. 24): "Astenersi dal combattere nelle battaglie ella civiltà per la propria riconosciuta debolezza, non ci sembra modestia ma viltà, lo sforzo collettivo progrediente nel bene essendo costituito dalla somma, dalle risultanze degli sforzi dei ingoli". Questo dovere nella consapevolezza della difficoltà e dei limiti personali, questo dovere del "combattere" "nelle battaglie della civiltà", era ben il blasone araldico di un uomo, di un intellettuale coraggioso e ben fermo nelle sue convinzioni generose, privo di personalistici interessi e compromessi utilitaristici, con una specie di nobiltà spirituale, in qualche modo "cavalleresca", in cui si commutava la sua stessa estrazione sociale (come a volte avviene in animi come quello dell'Agabiti).
Certo può suonarci ingenua (dopo tante esperienze storiche delusive, alla luce di più complesse visioni della realtà e della storia) quella profonda fede nel "progrediente bene", se può apparirci ingenua e discutibilissima la stessa idea goethiana di "progresso", come sviluppo a spirale con moti di ritorno indietro, ma con costante avanzamento verso l'alto. Ma anche nella prospettiva di un pessimista convinto e strenuo, il valore di quella doverosità del combattere per le sorti degli uomini tanto più si presenta, proprio se ancorata ad un saldo pessimismo, come alternativa all'inerzia e all'abbietta rassegnazione. E anche nella celebre frase gramsciana, "pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà", togliessimo la fatua parola "ottimismo", non potremmo collocare al suo posto il "dovere della volontà" di lotta?
A questo dovere della volontà di lotta a favore del bene degli uomini (per quanto esile e minacciato) l'Agabiti ha portato il suo contributo generoso ed attivo.
Credo perciò - al di là dell'affetto che mi lega al suo ricordo - che questa commemorazione, dedicatagli dalla sua città natale, sia da lui non ingiustamente meritata.

Walter Binni

NOTE

1. Vedi su questa famiglia di origine fiamminga l'opuscolo (senza nome di autore, senza luogo e data di pubblicazione) Vatielli conti del Sacro Romano Impero.
2. Vedi l'Enciclopedia Treccani, Appendice I, p. 1117.
3. Vedi Tutte le opere di Giacomo Leopardi a cura di Walter Binni, 1, Firenze Sansoni 1982, 1975, p. 353. Per i miei studi leopardiani rinvio a La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947, 19804 e a La protesta di Leopardi, Firenze Sansoni 1973, 1979. Sarebbero da particolarmente studiare i rapporti fra Leopardi e Pesaro, specie nella fase giovanile in cui Pesaro (che egli visitò andando a Bologna nel 1825) - con il cugino Francesco Cassi, il fratello della Gertrude del DiarIo d'Amore, con il cugino Mamiani, con Giulio Perticari - fu una città cui il giovane Leopardi (che le era legato attraverso la nonna paterna Virginia Mosca) guardò, non senza dissensi circa il purismo, come a uno dei centri classicistici per lui interessanti anche a causa dei soggiorni del Monti, suocero del Perticari. Anche sorella Paolina, nella sua amicizia con la figlia di Gertrude Cassi Lazzari, Vittoria Lazzari-Regnoli, vagheggiava Pesaro in opposizione con il "natio borgo selvaggio" come "una città brillante" (cfr. lettera del 5 giugno 1826 in Lettere inedite di Paolina a cura di F. Fortini e di G. C. Ferretti, Milano 1979).
4. Vedi il necrologio N. U. Avv. Cav. Francesco Agabiti, già segretario capo del nostro Comune in "La Provincia di Pesaro" a. XV, n. 11, 15 marzo 1914, pp. 1-2.
5. Vedi la voce "Augusto Agabiti", a cura di Francesco Corvino, nel Dizionario biografico degli italiani II, Roma, Istituto dell'Enciciopedia italiana, 1960, pp. 357-58.
6. Per la mia immagine di Perugia rinvio al saggio Perugia, la tramontana a Porta Sole nell'appendice del mio volume Due studi critici: Ariosto e Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978 ed ora a quello e ad altri scritti perugini in La tramontana a Porta Sole, edito dalla Regione Umbria, Perugia 1983.
7. Per i rapporti dell'Agabiti con Pesaro si ricordi almeno che l'inizio della pubblicistica comprende anche un lavoro di storia giuridica "locale", La raccolta del cardinale Astaldi delle Costituzioni del ducato di Urbino (1903) e che più tardi (mentre i periodici pesaresi davano sempre più notizie dei suoi libri) egli scrisse un articolo su Pesaro in "La Rassegna nazionale" 1 giugno 1909, il cui contenuto dedicato alla storia della sua città natale e alle sue prospettive di sviluppo culturale è stato già ricordato dal professor Brancati Alla sua morte, insieme a necrologi della stampa nazionale non mancarono affettuosi necrologi della stampa locale pesarese.
8. Si può ricordare una lettera a lui indirizzata dal Luzzatti e riportata in Umanità in solitudine: "Ella è l'italiano che con me ha più gioito delle recenti vittorie igienico-sociali ottenute con l'approvazione delle leggi contro l'alcoolismo e per la protezione degli animali... Con modesta efficacia Ella ha collaborato nel 1910 a prepararle...".
9. È infatti uscito, mentre rivedo questo mio intervento per la sua pubblicazione in "Studia Oliveriana", con il titolo I sepolti vivi, Milano, 1980.
10. Anche il romanzo Ipazia, se denuncia la volontà e l'efficacia narrativa dell'Agabiti, vale soprattutto come libro-battaglia a favore del libero pensiero di cui Ipazia era stata "martire" ad opera dei cristiani fanatici di Alessandria.
11. La generosa utopia dell'Agabiti ("la civiltà, senza coazione, sarà protetta dal mutuo amore", come egli scriveva in La salvezza di Europa e l'intervento italiano, Napoli 1915, p. 149) pensava di essere suffragata dalla "scienza politica": "Ed ecco che la scienza politica ci mostra l'Umanità avviarsi lentamente, ma m modo certo, verso l'autocoscienza della propria unità" (ibidem) cui la guerra con l'abbattimento del "Kaiserismo", avrebbe contribuito.
12. Gli ultimi anni della vita dell'Agabiti furono anche assillati dal problema di sussistenza della donna amata, Enrichetta Ellingam (una svedese, mi sembra) che a un certo punto sposò (senza poter legalizzare il matrimonio), lasciandola erede dei suoi averi, dei suoi libri e delle sue carte, sicché di queste non ho più alcuna notizia, essendosi la Ellingam risposata (o sposata?) con un altro teosofo romano e non avendo essa mai avuto diretti legami con la madre e le sorelle dell'Agabiti. Le sue lettere del tempo di guerra sono piene di allusioni a quest'"angelo di bontà", per questa sua compagna, per la quale chiedeva aiuti finanziari alle sorelle e di cui purtroppo la famiglia non conservava preciso ricordo (e, forse, con qualche amarezza, per quanto ne compresi da mia madre).