Ritratto familiare di uno scrittore del Primo Novecento
Augusto Agabiti
(1879-1918)
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Augusto Agabiti
Come ha già detto il carissimo amico Scevola Mariotti, la
mia partecipazione a questo ricordo dell'Agabiti non è
legata tanto, e direttamente, alla mia qualità di critico
letterario, quanto, e direttamente, a ragioni familiari e
personali. Infatti Augusto Agabiti era il fratello di mia madre,
Celestina, anch'essa nata a Pesaro, nel 1886 e morta precocemente
nel 1939 a Perugia. Pesaro dunque è per me una
città soprattutto importante per questa diretta ascendenza
familiare, anche se dovrò subito aggiungere che Pesaro fa
parte della mia esperienza esistenziale, della mia geografia
sentimentale, perché io, in anni ormai lontanissimi, nella
fervida zona della fanciullezza, fra '21 e '25, soggiornai varie
volte nella vostra città, fra estate ed autunno, ospite di
un'antica famiglia pesarese, i Conti Bracci Vatielli (1), cui ero
legato da vincoli di parentela, dato che la mia nonna materna,
una marchesa Degli Azzi Vitelleschi di Perugia (cugina della mia
nonna materna, una marchesa Barugi di Foligno), era sorella della
prima moglie di Cesare Vatielli, madre di Francesco Vatielli che
la vostra città ha più volte ricordato come
illustre musicologo operoso nel Conservatorio Rossini e nel
Conservatorio musicale di Bologna (2). Sicché nel mio
ricordo di quella Pesaro del primo Novecento si staglia anzitutto
il palazzo Vatielli (all'inizio di via Rossini, all'angolo fra
questa via, il Corso e la piazza del Popolo) con la fuga delle
sue sale e con il suo grande cortile in cui io giocavo con i miei
numerosi cuginetti e dove godevo della ospitalità
cordialissima della famiglia Vatielli, dell'affettuosa simpatia
di quelle care persone così affabili e simpatiche: lo zio
Cesare, con le sue battute scherzose e indaffarato
nell'amministrazione delle sue terre, la zia Carlotta, la sua
seconda moglie (una contessa Gazzoli di Terni), alta, miope e un
po' distratta in mezzo alle tante cure della sua numerosa
famiglia e soprattutto le giovani zie, di cui questa mattina ho
potuto riabbracciare con grande commozione Giulia (e la rivedo
adesso qui presente con il marito, Giuseppe Massarini), a cui ero
particolarmente affezionato (veniva spesso a casa nostra a
Perugia con sua madre) e che, insieme alle sue sorelle, insieme a
mia madre e alle sue amiche pesaresi (come Ginevra Rigoni,
così bella e intelligente), affascinavano la mia nascente
sensibilità alla gentilezza e alla grazia femminile, di
cui mi pareva costituissero un modello particolare appunto le
"signore pesaresi". Tanto che fui molto colpito dalla consonanza
delle mie precoci impressioni con quelle del grande poeta, che ho
tanto studiato e così a lungo servito nella mia
attività di critico, quando più tardi incontrai la
pagina giovanile del Diario del primo amore, in cui Giacomo
Leopardi rilevava il particolare fascino delle signore pesaresi,
narrando l'arrivo a Recanati della cugina Gertrude Cassi: "La
sera dell'ultimo giovedi, arrivò in casa nostra, aspettata
con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di
dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese
nostra parente, più tosto lontana, di ventisei anni, col
marito di oltre cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta
quanto nessuna donna ch'io m'abbia veduta mai, di volto
però tutt'altro che grossolano, lineamenti fra il forte e
il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni,
maniere benigne e, secondo me, graziose, lontanissime dalle
affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie
delle Signore di Romagna, e particolarmente delle Pesaresi,
diversissime, ma per una certa qualità inesprimibili, e
dalle nostre Marchegiane" (3).
Ma se il palazzo Vatielli con la sua vastità e il suo
cortile, centro dei miei giochi infantili (vi giungeva, fra
l'altro, assai stimolante e grato, un acuto odore di cioccolato
alla vainiglia dalla pasticceria Badioli confinante con quel
cortile), e con le care persone che lo animavano è il
centro dei miei ricordi pesaresi e di stagioni "idilliche" (e ora
dolcissime e amare come tutto ciò che è scomparso
per sempre), che spiccano in un'infanzia felice alle origini di
una vita di ben più tormentata natura, quei ricordi di
Pesaro si estendono a tutta la città, fra il porto e le
vie odorose di aria marina, al quotidiano fervore gioioso delle
gite al mare (dominato dall'amena rotonda liberty) cui giungevo
con i miei parenti sul tram a cavalli in partenza dalla piazza
del Popolo (allora piazza Vittorio Emanuele II), insolito nella
mia esperienza di tram a elettricità, e dove giuocavo
sulla spiaggia sassosa, fra i capanni isolati, nel mare verde
(così diverso da quello a me più consueto,
tirrenico-versiliese con le sue spiagge amplissime e con i
"bagni" lunghi e costruiti); alla letizia delle gite, in
carrozza, alle ville dei Vatielli a Santa Maria o a Muraglia
(dove mia madre mi indicava la vicina villa che era stata degli
Agabiti e in cui essa aveva trascorso periodi felici della sua
infanzia), o a Monte Ardizio o a Caprile o a Villa Imperiale, o a
quella di certi pomeriggi passati in un cinema a Porta Fano, il
"Sapis", nei cui pressi avevano abitato gli Agabiti. Ma certo,
ripeto, Pesaro è, anche attraverso i ricordi di mia madre
(così malinconica ed energica, così leopardiana
nella sua stessa mesta e ardente visione della vita, maestra
prima per me di sentimenti e di affetti poi consolidati
dall'esperienza e dalla cultura), soprattutto un luogo amato (gli
Agabiti vi abitarono dal 1877 al 1904) per questa ascendenza
familiare (la più vagheggiata, la più cara), per
questo legame con gli Agabiti, con il nonno Francesco, vecchio
gentiluomo risorgimentale,
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Francesco Agabiti
garibaldino a Bezzecca e a Mentana (4)
(con tutto il fascino delle sue generose idealità e della
sua qualità di combattente per la libertà e di
laico, cui amo far risalire le scaturigini del mio laicismo, del
mio impegno per le battaglie contro il fascismo e per la
democrazia, della mia feroce avversione per ogni ingiustizia) con
lo zio Augusto (5), fratello amatissimo da mia madre nella sua
intera lealtà e bontà, nel suo disinteressato
idealismo umanitario, nel suo fervore culturale e persino nella
sua virile bellezza. Di lui direttamente conservo solo un confuso
ricordo infantile, quando verso la fine della guerra egli venne a
trovarci a Perugia ed io mi rivedo ancora, bambino di quattro o
cinque anni, sul Corso alto e ventoso della mia città6,
tenuto per mano da mia madre e da lui, vestito da ufficiale (lo
chiamavo lo zio "oppi", uno - due "noddui", il passo dei
soldati): camminavo impettito, orgogliosissimo della compagnia di
lui, bello, alto, gentile, degno dell'elegantissima figura di mia
madre, con i suoi grandi occhi pensosi e malinconici.
Poi, quando giunse la notizia della sua morte precoce (per
spagnola, durante una licenza, ma io pensavo senz'altro in
guerra) e vidi mia madre affranta, vestita a lutto, ricordo
ancora il confuso, fanciullesco impeto di ribellione con cui
spezzai i soldatini di piombo così amati nei miei giuochi,
attribuendo appunto la sua morte alla guerra di cui quei diletti
soldati erano emblema.
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Celestina Agabiti
Ma, al di là di quei confusi ricordi infantili la sua
figura cresceva in me nei discorsi di mia madre, nei ricordi di
lui, delle sue idee teosofiche, ma soprattutto della sua
bontà, della sua lealtà spinte sino
all'ingenuità: come nell'episodio di lui che stava per
essere borseggiato su di un tram a Roma e che essendo riuscito a
bloccare il ladro, invece di denunciarlo, lo prendeva
sottobraccio, scendeva alla prima fermata con lui, parlava con
lui, si informava sui suoi casi miserevoli o presunti tali, e gli
regalava una somma pari a quella che il ladro avrebbe potuto
borseggiargli. Lealtà e bontà esercitata nella
famiglia e con tutti, di cui ebbi ulteriori conferme - morta mia
madre - quando essendo deputato socialista all'Assemblea
Costituente, nel '46-'48 trovai nella biblioteca della Camera dei
deputati, di cui egli era stato segretario e vice-bibliotecario,
alcuni vecchi funzionari che ancora di lui si ricordavano con
unanime simpatia e me ne testimoniavano la bontà, la
schiettezza, l'estrema vivacità intellettuale e la vasta
cultura giuridica e letteraria.
Augusto Agabiti (per trarre dai ricordi un minimo di schema
biografico che può servire ad integrare la biografia
intellettuale che ne traccerà l'amico Corvino, estensore
della voce a lui dedicata nel II volume del Dizionario Biografico
degli italiani ed ora nelle more di questa pubblicazione
purtroppo scomparso) era nato a Pesaro il 7 gennaio 1879 da una
antica famiglia, le cui origini sono sì marchigiane (di
Fermo) nel Medio Evo, quando ebbe fra i suoi componenti anche un
"beato", ma che era poi, intorno al 6-700 divenuta romagnola, di
Rimini, dove ancora c'è una piazzetta intitolata agli
Agabiti, e da cui proveniva il padre Francesco (nato nel 1840 di
madre bolognese, una contessa Sampieri), il quale, dopo la sua
attività militare garibaldina, aveva intrapreso la
carriera di segretario comunale, lo era stato a Foligno dove
aveva sposato Vincenza Barugi (già conosciuta da ufficiale
dell'esercito "sardo" come lui diceva, durante esercitazioni nei
pressi del castello della Popola, feudo dei Barugi), per po'
esserlo a Pesaro dal 1877 al 1904, dopodiché, andato in
pensione, si era trasferito a Roma, dilettandosi di pittura (ho
ancora in casa due suoi quadri di tipo
impressionistico-veristico) e morendovi nel 1914, come ha
ricordato l'amico Brancati. A Pesaro Augusto Agabiti, primogenito
di Francesco, compi i suoi studi ginnasiali e liceali, contrasse
salde amicizie, mantenute sempre nei suoi frequenti ritorni a
Pesaro (ricordo per tutte quella con il padre dell'amico
Mariotti) (7), fece le prime esperienze culturali, per poi
passare nel 1897 a Roma dove frequentò la facoltà
di giurisprudenza laureandovisi nel 1901, e dove si formò
anzitutto una cultura storico-giuridica importante non solo
perché dette luogo a pubblicazioni notevoli come La
sovranità della società (1904), ma perché la
sua competenza ed esperienza giuridica molto gli giovò poi
nel promuovere, - attraverso deputati e ministri, che frequentava
per il suo impiego alla Camera dei Deputati,-tante leggi di
carattere "igienico-sociale" legate allo sviluppo delle sue idee
teosofiche e umanitarie: la legge sui limiti della vivisezione
degli animali, la legge sull'alcolismo, e altre per lui
personalmente importanti e corrispondenti a problemi assai vivi,
e spesso assai avanzati, in quegli anni di primo Novecento.
L'epoca in cui egli venne a contatto con il notevole mondo
culturale romano, con rappresentanti del modernismo cattolico
(come Romolo Murri che scriverà poi una prefazione ad uno
dei suoi libri, così come farà per un altro libro
il Fogazzaro e da tutt'altro versante, l'Ardigò), con
uomini della democrazia liberale, con letterati mossi (pur entro
quell'ambiente più fortemente decadente, estetizzante,
dannunziano) da problemi di idee e da istanze spiritualistiche
(pur con tracce dello scientismo positivistico) che soprattutto
trovavano particolare espressione nel folto gruppo teosofico.
Ed è appunto, fra il 1904 e il 1905 che l'Agabiti
incontrò Decio e Olga Calvari, teosofi, divenne membro
attivo della società teosofica e poi nel 1914 direttore
della rivista teosofica "Ultra" (cui aveva già collaborato
dal 1907), rimanendo tale fino alla morte nel periodo più
attivo e fecondo di quella rivista (e si ricordi che alla
teosofia aderirono personaggi come Giovanni Amendola e,
più tardi, Arturo Onofri).
Ma io non mi dilungherò sulla sua attività
teosofica, certo centrale nei suoi interessi, non solo
perché questo è il tema base della relazione di
Corvino, ma anche perché meno per me interessante e
più lontana dalle mie idee e dai miei interessi (e solo
per me recuperabile in una prospettiva storico-culturale del
clima spiritualistico di primo Novecento e della reazione al
positivismo e al suo razionalismo un po' piatto e mediocre, cui
rispondevano diversamente, e con ben maggiore forza, l'idealismo
crociano e gentiliano e il materialismo dialettico-storico),
mentre più mi interessa ricordare quell'attività
(pure inscindibile dal suo spiritualismo teosofico) di
riformatore umanitario, che si esprime in tanti dei suoi libri
più vivi e che si realizzò anche, come ho
già accennato, in precisa formulazione di provvedimenti
legislativi cui egli collaborò con molti deputati e
ministri, come anzitutto con Luigi Luzzatti (presidente del
Consiglio nel 1910 e, prima e poi, ministro e deputato), fornendo
ad essi idee, dati, formulazioni giuridiche e spesso facendosene
presso di loro suggeritore e promotore. (8)
In questi problemi (tutt'altro che chiusi tuttora, anche se
troppe volte riusufruiti in una cultura di "riflusso" di tipo
spiritualistico, ma viceversa riattualizzabili in una più
concreta coscienza di questioni troppo dimenticate per il
prevalere di altri problemi politici e sociali fondamentali e pur
bisognosi di nuova attenzione ad aspetti reali della nostra
condizione umana) mi sembrano emergere quello sul problema della
sepoltura e della morte apparente e quello ecologico e del
rapporto fra uomini, animali, ambiente naturale.
Così nella Tortura sepolcrale egli dibatteva il problema,
allora assai vivo (ricordate nella Rosa rossa di Quarantotti
Gambini, ambientato nel primo dopoguerra, la morte del
protagonista e la scena del medico che gli spacca il cuore con
l'apposito stiletto?), problema poi del tutto obliterato, della
morte apparente, della catalessi, per cui la sepoltura precoce
può sottoporre tante persone a quella che giustamente
l'Agabiti chiamava la "tortura sepolcrale". Proprio in questi
giorni ho letto su di un settimanale l'annuncio di un libro
francese di J. Y. Péron-Autret, Les morts vivants che
apparirà presto tradotto in italiano (9), e poi,
leggendolo, vi ho trovato molti degli argomenti svolti
dall'Agabiti e persino alcuni dei rimedi pratici da lui suggeriti
allo scopo di evitare una così allucinante
possibilità (quella di risvegliarci vivi e chiusi entro la
bara e la tomba e così orrendamente "torturati") da cui
nasce quella "tafofobia" che pure cova tremenda, a pensarci,
sotto la generale disattenzione.
Così nel suo libro, a mio avviso, più maturo e
denso e, in certo modo, ricco di futuro, L'Umanità in
solitudine del 1914, l'Agabiti creava un quadro efficace di
un'umanità che potrebbe trovare un accordo tanto
più confortante di alleanza fraterna con la natura e con
gli altri esseri viventi, soprattutto gli altri animali (quelli
che il mio amico Aldo Capitini chiamava i nostri "fratelli
minori"), se non si chiudesse orgogliosamente e ferocemente in se
stessa; e lo creava per farne scaturire (a parte la pratica del
vegetarianesimo) concrete proposte civili e giuridiche di
protezione degli animali, di leggi limitative della vivisezione
(che egli trattava anche in altro apposito libro) e persino di
leggi di tutela dell'ambiente e del regno vegetale.
Sicché (mentre con questi libri, entro aspetti congeniali
della cultura e della sensibilità del suo tempo,
anticipava, a suo modo, motivi e problemi che, riaffiorano,
aggravati, anche nel nostro tempo) egli - ed è ciò
che mi pare più caratteristico della sua pubblicistica e
della sua personalità - tendeva a trovare soluzioni
positive e concrete, a modificare (partendo dai suoi presupposti
religiosi-teosofici: l'unità del cosmo vivente, il legame
profondo degli uomini con il tutto, ma non fermandosi alla
meditazione teoretica) la realtà umana e i suoi rapporti
con il mondo vivente fino (come ho già detto) a promuovere
e sostenere leggi precise collaborando con i politici più
aperti a simili istanze umanitarie (e magari accettando la pelosa
solidarietà di personaggi ambigui della Roma del tempo,
come molte dame dell'aristocrazia e della corte sabauda, sino
alla reazionaria regina Margherita!).
Quindi i suoi libri hanno per lo più il valore di
libri messaggio, di libri-battaglia, legati al suo fondamentale
umanitarismo, e come tali vanno giudicati anche dal punto di
vista scrittorio (10). Perché anche certi aspetti del suo
scrivere, per noi troppo eloquenti e didattici, sono certamente
collegati ad una centrale intenzione pragmatica e impressiva che
cercava soprattutto un'efficacia sull'immaginazione e sul
sentimento e, attraverso questi, sulla ragione dei lettori. Tanto
che egli ne mostrava esplicitamente la motivazione, quando ad
esempio nel libro sulla Tortura sepolcrale, egli avvertiva: "Io
so bene di presentarvi quadri macabri ed in qualche punto
sconvolgenti, ma io lo faccio apposta per scuotere il vostro
torpore, perché prendiate coscienza di questa situazione,
di questo problema".
Da ciò deriva il modo della scrittura, I'abbondanza della
casistica e della cronaca, della citazione sollecitante di brani
di scrittori congeniali ed eloquenti (Hugo, Zola, Tolstoi, nella
loro fase più umanitaria) e persino di usi grafici inediti
nella nostra lingua: come quello del segno esclamativo e
interrogativo capovolto (ripreso dallo spagnolo) all'inizio di
una frase esclamativa e interrogativa, per introdurre e orientare
il lettore nella retta interpretazione e dizione della frase. Uso
- a detta anche dei miei amici linguisti - assolutamente estraneo
all'italiano e considerabile come uno dei modi con cui l'Agabiti
intendeva perseguire il suo scopo di comunicazione, di chiarezza,
di efficacia, rifuggendo viceversa da ricerche stilistiche
più preziose e in genere da quel gusto estetizzante che il
dannunzianesimo imperante comportava, e che egli rifiutava, non
solo nel suo intento scrittorio, ma alla luce stessa dei suoi
ideali umanitari: donde il preciso attacco antidannunziano nel
libro Il problema della vivisezione (1911 p. 84) circa
l'amoralismo del celebre personaggio del Fuoco, Corrado Brando,
che l'Agabiti valuta "non come un semplice paradosso letterario
(come fu inteso da qualche critico ottimista)", ma come "il
risultato attuale e necessario dei principi areligiosi,
edonistici, di egoismo selvaggio professati da alcuni gruppi
sociali di intellettuali decadenti, i quali pretendono di essere
al di là del bene e del male".
Donde una collocazione, pur fra elementi primo novecenteschi ben
chiari (l'"anima", la "cultura dell'anima", con consonanze
vociane), in un certo clima più postromantico che
precisamente decadente, con qualche rapporto ignaro, ad esempio,
con il più significativo critico di quella zona (Eugenio
Donadoni), come sul nesso fra morte, religione, filosofia e arte
di cui l'Agabiti scriveva nella Tortura sepolcrale: "La morte
è il mistero più grande dell'esistenza; quasi una
selva buia che dal fondo di una via, tutta l'empie di ombre.
Spaventevole, distruttiva, non resta infeconda. Ell'è la
madre delle tre forze redentrici dell'uomo: la religione, la
filosofia, l'arte trovano in lei l'origine ed alimento primo di
vita".
Né qui possiamo a lungo indogiare su tutti i numerosi
motivi ideali-programmatici, che emergono da tutta l'opera
dell'Agabiti proseguita fino allo scoppio della prima guerra
mondiale: basti, ad esempio rilevare l'affermazione della
"ridesta coscienza femminile" e della dignità e
parità della donna, con tutto ciò che tale motivo
implica nella leggibilità storico-attuale degli
scritti-battaglia dell'Agabiti.
Nel 1914 di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale,
l'Agabiti assunse un atteggiamento interventistico, che si
può spiegare assai facilmente con l'eredità
risorgimentale (la guerra come prosecuzione dell'unità
nazionale), con la sua posizione politica di liberale monarchico
(la monarchia costituzionale come presunta garanzia
dell'unità italiana minacciata a destra dai clericali, a
sinistra dai socialisti), con l'avversione non contro la Germania
(ritenuta anzi "la patria della scienza e della filosofia" alla
luce di un certo coacervo di elementi idealistici e positivistici
non raro nella cultura di quegli anni), ma contro il
prussianesimo militarista e il "kaiserismo" imperialistico e
autoritario, promotore di una schiavitù dei popoli e del
"libero pensiero" (anche nella stessa Germania), nonché
dall'ingenua speranza dell'"ultima guerra", da cui sarebbe uscita
la comunità dei popoli liberi, della libera e solidale
umanità (11).
Sicché egli fu interventista e partecipò, come
ufficiale del genio, soprattutto alle sanguinose battaglie
dell'Isonzo, fra '15 e '17, in prima linea con una compagnia di
zappatori spesso usata in attacchi come arma di fanteria, non
senza singolari personali proposte (era. ripeto, ufficiale del
genio) di strumenti bellici, di cui egli parla in alcune lettere
alla sorella maggiore, Margherita, dicendo di aver inoltrato al
Comando Supremo lo schema di una invenzione bellica, non ben
precisata, ma basata sull'uso dell'energia elettrica, che, a suo
avviso, avrebbe minacciato ed infranto le "difese corazzate"
austriache e tedesche.
Ma - a parte queste curiose invenzioni e la strana mescolanza in
uno spiritualista ad oltranza di un particolare gusto empirico e
dell'invenzione tecnica-ciò che conta è che
l'Agabiti, partecipò alla guerra con una carica iniziale
di persuaso entusiasmo, testimoniato anche dalla larga
attività esercitata al fronte e all'interno (in periodi di
licenza) come propagandista con conferenze che poi raccolse nel
volume Sulla fronte giulia. Ma a un certo punto - ed è
questa la fase terminale della breve vicenda
biografico-intellettuale dell'Agabiti - egli provò di
fronte alla guerra una reazione, che rimetteva in causa anche le
sue prospettive politiche e sociali pur senza sconvolgere il suo
fondamentale atteggiamento "riformistico" e le ragioni di fondo
del suo interventismo. Così, in una lettera del 24 maggio
1917 alla sorella Margherita, egli spiega questo suo cambiamento
"Il mio avvicinamento ai partiti popolari, radicali, socialisti
riformisti è dovuto ad un cumulo di ragioni, che per
iscritto posso appena elencarti. Necessita che i popoli siano
d'ora innanzi interpellati nelle gravi questioni internazionali e
che non si venda il sangue loro fra un ballo e l'altro da parte
di principi senza coscienza e di diplomatici cinici, ignoranti ed
egoisti. Necessita che da questa guerra sorgano non solo gli
Stati uniti d'Europa ma gli Stati Uniti del mondo. Se no avremo
sempre grosse catastrofi non solo politiche, ma economiche, che
porteranno alle terribili guerre per la fame. Lo sperpero dei
beni è immenso e siccome la popolazione cresce
strabiliantemente ovunque se non si provvede, si avrà un
disastro molto, ma molto peggiore del presente. Bisogna fare una
politica preveggente e che persegua l'ideale del progresso morale
ed economico dei popoli e bisogna sostenerlo contro egoismi di
individui, di caste, di razze.
Infine siccome, approfittando della guerra, i suddetti reazionari
cercano in Italia, Francia, Inghilterra, di comprimere la
libertà di pensiero (tanto è vero che si è
cominciata un'aspra guerra contro i teosofi) io sento il dovere
di reagire tanto più che ciò facendo si
contribuisce al bene d'Italia.
La guerra mi ha fatto convincere che, tolta una piccola
minoranza, i conservatori avrebbero preferito la schiavitù
piuttosto che battersi: così alla pietra del paragone ho
potuto distinguere l'oro dall'orpello. Da molto tempo io ero
libero pensatore (prova ne siano i miei opuscoli ecc. ecc.),
nemico appunto dei potenti e federalista (vedi il mio libro
sull'intervento e la federazione europea) e se mi mantenni
monarchico fu perché credevo vero il patriottismo dei
conservatori e temevo il disfacimento dell'unità
d'Italia.
Ora che andiamo verso la monarchia assoluta e che la guerra ha
rivelato l'egoismo cieco dei ricchi e dei potenti e il
disinteresse eroico e patriottico dei repubblicani, non esito un
momento a scegliere la causa repubblicana e se occorrerà
per preparare la federazione europea dovremo farlo anche a costo
dell'abbattimento di tutte le monarchie".
In tal modo il suo interventismo si congiungeva a
quell'interventismo democratico che avrebbe dato molte forze
moderate, ma genuine all'antifascismo e (seppure la storia mal si
fa con i "se" e dubbie sono le ragioni del "futuribile") par
lecito pensare che l'esperienza della guerra e il suo ricavo,
come aveva condotto l'Agabiti al fianco (e con il suo
costituzionale ardore generoso) delle forze popolari anche se
moderate e riformistiche (la teoria e la direzione marxista gli
fu estranea), così l'avrebbero portato alla lotta contro
la prossima dittatura scaturita dalla guerra.
Ma nel 1918, dopo un periodo passato a Bologna presso il Comando
del Genio, durante una breve licenza a Roma (12), egli fu colto
dalla spagnola e morì a trentanove anni, il 5 ottobre.
Così si completa e si compie questa vicenda biografica,
breve, priva di sbocchi più certi e maturi, ma tutt'altro
che priva di tensione, di interventi, di inquietudine
intellettuale, illuminata - nel centro promotore delle sue idee
in gran parte legate inscindibilmente allo spiritualismo di primo
Novecento (e certo così lontane da quelle di chi vi parla
e che pur riconosce molti debiti al ricordo sollecitante di
questo parente materno) - dal senso profondo e persino ostinato
di un essenziale dovere-volontà, quel dovere che bene egli
esplicita, in forme molto sue e con un'umile e lucida
autocoscienza, in un brano della Tortura sepolcrale (p. 24):
"Astenersi dal combattere nelle battaglie ella civiltà per
la propria riconosciuta debolezza, non ci sembra modestia ma
viltà, lo sforzo collettivo progrediente nel bene essendo
costituito dalla somma, dalle risultanze degli sforzi dei
ingoli". Questo dovere nella consapevolezza della
difficoltà e dei limiti personali, questo dovere del
"combattere" "nelle battaglie della civiltà", era ben il
blasone araldico di un uomo, di un intellettuale coraggioso e ben
fermo nelle sue convinzioni generose, privo di personalistici
interessi e compromessi utilitaristici, con una specie di
nobiltà spirituale, in qualche modo "cavalleresca", in cui
si commutava la sua stessa estrazione sociale (come a volte
avviene in animi come quello dell'Agabiti).
Certo può suonarci ingenua (dopo tante esperienze storiche
delusive, alla luce di più complesse visioni della
realtà e della storia) quella profonda fede nel
"progrediente bene", se può apparirci ingenua e
discutibilissima la stessa idea goethiana di "progresso", come
sviluppo a spirale con moti di ritorno indietro, ma con costante
avanzamento verso l'alto. Ma anche nella prospettiva di un
pessimista convinto e strenuo, il valore di quella
doverosità del combattere per le sorti degli uomini tanto
più si presenta, proprio se ancorata ad un saldo
pessimismo, come alternativa all'inerzia e all'abbietta
rassegnazione. E anche nella celebre frase gramsciana,
"pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà",
togliessimo la fatua parola "ottimismo", non potremmo collocare
al suo posto il "dovere della volontà" di lotta?
A questo dovere della volontà di lotta a favore del bene
degli uomini (per quanto esile e minacciato) l'Agabiti ha portato
il suo contributo generoso ed attivo.
Credo perciò - al di là dell'affetto che mi lega al
suo ricordo - che questa commemorazione, dedicatagli dalla sua
città natale, sia da lui non ingiustamente meritata.
Walter Binni
NOTE
1. Vedi su questa famiglia di origine fiamminga l'opuscolo
(senza nome di autore, senza luogo e data di pubblicazione)
Vatielli conti del Sacro Romano Impero.
2. Vedi l'Enciclopedia Treccani, Appendice I, p. 1117.
3. Vedi Tutte le opere di Giacomo Leopardi a cura di Walter
Binni, 1, Firenze Sansoni 1982, 1975, p. 353. Per i miei studi
leopardiani rinvio a La nuova poetica leopardiana, Firenze,
Sansoni, 1947, 19804 e a La protesta di Leopardi, Firenze Sansoni
1973, 1979. Sarebbero da particolarmente studiare i rapporti fra
Leopardi e Pesaro, specie nella fase giovanile in cui Pesaro (che
egli visitò andando a Bologna nel 1825) - con il cugino
Francesco Cassi, il fratello della Gertrude del DiarIo d'Amore,
con il cugino Mamiani, con Giulio Perticari - fu una città
cui il giovane Leopardi (che le era legato attraverso la nonna
paterna Virginia Mosca) guardò, non senza dissensi circa
il purismo, come a uno dei centri classicistici per lui
interessanti anche a causa dei soggiorni del Monti, suocero del
Perticari. Anche sorella Paolina, nella sua amicizia con la
figlia di Gertrude Cassi Lazzari, Vittoria Lazzari-Regnoli,
vagheggiava Pesaro in opposizione con il "natio borgo selvaggio"
come "una città brillante" (cfr. lettera del 5 giugno 1826
in Lettere inedite di Paolina a cura di F. Fortini e di G. C.
Ferretti, Milano 1979).
4. Vedi il necrologio N. U. Avv. Cav. Francesco Agabiti,
già segretario capo del nostro Comune in "La Provincia di
Pesaro" a. XV, n. 11, 15 marzo 1914, pp. 1-2.
5. Vedi la voce "Augusto Agabiti", a cura di Francesco Corvino,
nel Dizionario biografico degli italiani II, Roma, Istituto
dell'Enciciopedia italiana, 1960, pp. 357-58.
6. Per la mia immagine di Perugia rinvio al saggio Perugia, la
tramontana a Porta Sole nell'appendice del mio volume Due studi
critici: Ariosto e Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978 ed ora a quello e
ad altri scritti perugini in La tramontana a Porta Sole, edito
dalla Regione Umbria, Perugia 1983.
7. Per i rapporti dell'Agabiti con Pesaro si ricordi almeno che
l'inizio della pubblicistica comprende anche un lavoro di storia
giuridica "locale", La raccolta del cardinale Astaldi delle
Costituzioni del ducato di Urbino (1903) e che più tardi
(mentre i periodici pesaresi davano sempre più notizie dei
suoi libri) egli scrisse un articolo su Pesaro in "La Rassegna
nazionale" 1 giugno 1909, il cui contenuto dedicato alla storia
della sua città natale e alle sue prospettive di sviluppo
culturale è stato già ricordato dal professor
Brancati Alla sua morte, insieme a necrologi della stampa
nazionale non mancarono affettuosi necrologi della stampa locale
pesarese.
8. Si può ricordare una lettera a lui indirizzata dal
Luzzatti e riportata in Umanità in solitudine: "Ella
è l'italiano che con me ha più gioito delle recenti
vittorie igienico-sociali ottenute con l'approvazione delle leggi
contro l'alcoolismo e per la protezione degli animali... Con
modesta efficacia Ella ha collaborato nel 1910 a
prepararle...".
9. È infatti uscito, mentre rivedo questo mio intervento
per la sua pubblicazione in "Studia Oliveriana", con il titolo I
sepolti vivi, Milano, 1980.
10. Anche il romanzo Ipazia, se denuncia la volontà e
l'efficacia narrativa dell'Agabiti, vale soprattutto come
libro-battaglia a favore del libero pensiero di cui Ipazia era
stata "martire" ad opera dei cristiani fanatici di
Alessandria.
11. La generosa utopia dell'Agabiti ("la civiltà, senza
coazione, sarà protetta dal mutuo amore", come egli
scriveva in La salvezza di Europa e l'intervento italiano, Napoli
1915, p. 149) pensava di essere suffragata dalla "scienza
politica": "Ed ecco che la scienza politica ci mostra
l'Umanità avviarsi lentamente, ma m modo certo, verso
l'autocoscienza della propria unità" (ibidem) cui la
guerra con l'abbattimento del "Kaiserismo", avrebbe
contribuito.
12. Gli ultimi anni della vita dell'Agabiti furono anche
assillati dal problema di sussistenza della donna amata,
Enrichetta Ellingam (una svedese, mi sembra) che a un certo punto
sposò (senza poter legalizzare il matrimonio), lasciandola
erede dei suoi averi, dei suoi libri e delle sue carte,
sicché di queste non ho più alcuna notizia,
essendosi la Ellingam risposata (o sposata?) con un altro teosofo
romano e non avendo essa mai avuto diretti legami con la madre e
le sorelle dell'Agabiti. Le sue lettere del tempo di guerra sono
piene di allusioni a quest'"angelo di bontà", per questa
sua compagna, per la quale chiedeva aiuti finanziari alle sorelle
e di cui purtroppo la famiglia non conservava preciso ricordo (e,
forse, con qualche amarezza, per quanto ne compresi da mia
madre).